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PIANGONO ANCORA COME BAMBINI
La prima edizione di Piangono ancora come bambini è uscita nel 1994 per i tipi dell’Editore Campanotto di Udine. La presente edizione è stata sensibilmente ritoccata.
Il primo abbozzo di questo libro è stato gettato durante la veglia alla salma della madre Maria Livia Bressanin Scarselli nella notte fra il 4 e il 5 Settembre 1991 nella camera ardente dell’ospedale di Bibbiena, ma è anche un omaggio alla memoria di tutte le madri, che in vita non sono mai abbastanza amate. E’ il diario di quella veglia solitaria, un’esplorazione pietosa ma anche inquietante di un mondo ai confini con l’ultraterreno, in un crescendo drammatico che solo con l’alba si placa e sublima in un compianto per tutti i morti che sotto terra forse piangono ancora come bambini.
L’ha presa tra le forti braccia
per allattarla alla poppa di figlio
Di un’altra veglia ho memoria,
quando il vento dell’alpe una sera
allentò la sua guerra caparbia
alla torre tetragona degli avi
e i camini cessarono d’ululare
e le finestre di gemere come animali.
Io chiuso nella sala delle armi
solo come un vecchio soldato
apprestai la mia povera sera,
l’interminabile veglia per attendere
davanti al mio pane e al mio vino
ed al fuoco acceso di guardia
che un’altra notte della vita si compisse.
Disposti i ceri alle buie feritoie,
sprangata ogni apertura alla Morte,
attesi fermo i dèmoni della notte
nella sala gremita di clessidre,
di tarli, di scricchiolii, di antichi specchi
che si animavano, di serpi che vigilavano
nei nascondigli, di ceri che lentamente
smorivano inchiodati ai candelabri.
Fu una lunga veglia fino all’alba,
ed infine anche il fuoco si spense
e le serpi ricaddero in letargo;
solo cani si udivano ovattati
abbaiare alla volpe lontana
mentre il gelo dal suo antico agguato
trasudando dai pori delle mura
trafisse il cuore nudo della sala;
allora anche il vento dei nevai
riprese la sua folle corsa,
ancora il tormento d’un giorno
contro mura e finestre sprangate
e quei camini freddi che ululavano.
Anche questa è una povera veglia
di valoroso soldato,
di figlio,
una notte sul Monte degli Ulivi;
dovrò provare la natura umana
di chi è soggetto alla fame e alla sete
e vessato da passioni animalesche:
l’orrore intollerabile della solitudine,
il timore per le facce dei morti;
dovrò bere fino all’ultima goccia
l’elisir ripugnante della morte,
questa Cosa che offende e stupisce,
che ogni giorno consuma il suo misfatto
e ogni giorno più caparbia della vita
dalle uova della vita si rinnova.
Questa volta sarà il figlio a partorire
il caro corpo ingombrante d’una morta
che attende solo le cure lenitrici
d’una levatrice amorosa.
Ma questo figlio
non è stato un amoroso giglio,
l’aveva forse perfino scordata.
Fu soltanto nei giorni del dolore,
quando i lupi l’addentavano per spogliarla
d’ogni cara sembianza d’umano,
che cominciò ad amarla con il pianto
con cui s’amano le cose che svaniscono
e ci gettano ignudi nel mondo
soli con la nostra solitudine;
e allora con la furia e l’angoscia
per il tempo che più non aveva
l’ha presa tra le forti braccia
per allattarla alla poppa di figlio,
per costringere quell’anima a restare
ancora dentro il magico involucro
della vita, che ovunque si perpetua
ma in lei inaridita e sfinita
soffriva per la lunga prigionia
fra i lacci d’un corpo ostinato.
La candela di quel corpo sfinito
non dava che una piccola luce,
consumava il poco suo olio
solo da un lucignolo del ventre,
il luogo del mio sonno embrionale
ch’io tentavo disperatamente di salvare
dalla laida malattia della vecchiaia.
Leccavo le povere piaghe
come fossero mie perché bruciavano
la coscienza come ferri roventi,
ma quelle furiosamente proliferavano,
mi si attaccavano addosso, succhiavano
la linfa anche alla pianta sbigottita
della mia vita, e come fiume in piena
la trascinavano con sé verso l’oceano
dell’informe materia inorganica.
Ma poi anche quell’ultimo custode
dei luoghi del mio sonno più dolce
si spense, e rimase la Morte
a guardia di caverne ormai vuote.
Adesso anch’io sono un vecchio,
come tutti coloro che la madre
ha dovuto lasciare soli e inermi
al fiume inesauribile della morte;
ma ho imparato infine che l’amore
è una forza animalesca che unisce
anche gli esseri umani come i cani
con la pelle l’odorato le carezze,
gli fa leccare il viso al padrone
anche se non è che una crisalide
rattrappita di madre vecchissima
più simile a un povero rospo,
a un feto tutto solo con la sua anima
nella docile attesa di nascere
a una vita ancora sconosciuta.
Ma già incombeva il buio della notte,
perché lei potesse accorgersi di me
e del mio triste amore di cane
acciambellato sulla tomba del padrone.
Eccola qui la Morte,
la bestia che annusava da tempo
le nostre tracce silenziosa come un gatto
graffiandoci ogni tanto con l’unghia
per assaggiare il sapore della carne;
ora senza più ritegno
ha svelato la sua vera faccia
a una povera vecchia che neanche
l’aveva riconosciuta e non sapeva
d’esser la prescelta per le nozze.
Il muso impietoso della Morte
era così vicino col suo fiato,
che avrei potuto toccarla con un dito,
tentare nel suo stesso letto
perfino di ferirla nella carne
o fissarla negli occhi felini
che non sbattono mai, forse anche spingermi
dentro le fessure delle pupille
ben oltre ogni limite umano,
dove l’occhio forse è una finestra
da cui per un attimo spiare
il luminoso disegno dell’Essere.
Invece fu l’orrore a sopraffarmi
appena ebbi solo intravisto
il serpente del Male che si cela
dietro le pupille della Morte
e avvelena il meccanismo dell’universo;
la Morte è la sua rozza serva
e anche a mutilarla o ad ucciderla
egli caparbiamente la rialza.
Ma anche se da tempo ci sembrava
di attenderla, se anche consapevoli
si spiava con amore e timore
ogni minima infida increspatura
del giorno e della notte, prigionieri
di tutti i fantasmi che nidificano
come Arpie ai capezzali d’ospedale
fra inutili disumane alchimie,
mai la Morte è veramente attesa
né la culla mai preparata
per una nascita così singolare
ad un mondo mai scrutato in volto;
ed un giorno che eri distratto
ti sorprende col soffio ovattato
d’un sospiro riempiendoti di stupore,
non di notte evocata da ombre
ma uscendo di soppiatto repentina
da un gioioso raggio di sole,
proprio mentre stavi salutando
la speranza d’un altro mattino
e detergevi il viso della mamma
dalle bave d’una notte che credevi
sconfitta e ritirata nell’ombra;
e invece era il viso ingannevole,
mascherato di sole della Morte.
Uscita dal suo nascondiglio
ha colpito; l’unghia è subito affondata
in quel cuore così gracile e inerme
e il meccanismo dell’essere s’è rotto.
Le pareti malevoli della camera
se ne stavano acquattate nell’ombra
come asettiche spietate assassine
in un braccio scellerato della prigione
in cui quasi si spengono le luci
per lo sforzo di bruciare il cuore
a un infelice condannato a morte;
il letto, la sedia, la finestra,
la sveglia appollaiata sul comodino,
anche il tempo senza più memoria
immobile alle sette del mattino,
segnavano l’inizio dell’eternità.
Per celebrare da sola la festa,
la Morte aveva alzato un muro
intorno a quel cuore stanchissimo
che aveva obbedito docilmente;
soltanto una flebo pietosa
continuava ostinata a mostrare
l’inutile gocciolio del tempo
mentre fuori scorreva la vita
d’un giorno normalissimo di sole.
Intorno a quel sonno senza sogni
c’è stato un po’ di trambusto,
un ronzare di preti e infermieri
come mosche su un povero escremento;
quei robot senza voce né volto
si muovevano veloci e precisi
con felpato fruscio di ciabatte
in un triste commercio col dolore;
la punsero succhiandola a lungo
con denti velenosi di siringhe
e poi l’abbandonarono impassibili
come s’usa per un sacco vuoto
sulla faccia senz’amore della terra.
La Morte con un semplice soffio
fa tremare gli eventi del mondo
e il sole a mezzogiorno si nasconde,
come quando uno stormo di locuste
s’abbatte sui campi sbigottiti;
talvolta viene da pensare a un sogno,
a un’incredibile maligna allucinazione,
ma il pianto brucerà tutta la vita
nella cenere grigia dei tuoi giorni
per avere lasciato partire
ancora una volta così sola,
e senza far nulla per strapparla
a Colei che stava in agguato,
la madre del tuo corpo e della tua anima.
Eppure sembra esserci ancora;
sembra ancora, seppur lievemente,
che respiri; forse è solo veramente
prigioniera d’un sonno ostinato,
quello intenso dei corpi stanchissimi
che non possono neanche sognare
né sentire premurose carezze.
Ma anche se il cuore s’è rotto
io so che le cellule attonite
sono ancora brulicanti di umori;
esse ancora non hanno capito
cos’è successo, sono un po’ timorose
perché molte stan già soffocando
dentro i loro corpicini smarriti;
possibile che proprio nessuno
sappia più aiutarle a non morire?
Ascoltate: si odono chiare
seppure ovattate dal freddo
quelle loro grida lontane;
ben presto non sarà percepibile
che la debole aura irradiata
da orfane molecole che tentano
un’ultima sfortunata trasmutazione
per diventare impalpabile spirito;
non sanno che verranno disperse
a putrefarsi sui prati del mondo
e saranno solo umile sterco.
Ma ancora come possono dire
che è morta, totalmente, irrevocabilmente,
questi grigi e tristi burocrati
che amministrano la materia corporale
senza neanche conoscerne l’anima,
luminari che sanno auscultare
solo i rozzi eventi meccanici
misurabili senz’amore né fatica,
mentre invece io sento distintamente
quanto son vivi, reali, amorosi,
i fremiti di quel corpo nel riconoscermi;
io so che sta ancora tentando
di mandare segnali, richieste
d’ora in ora più deboli di soccorso,
rochi soffi della voce che ha perduto;
ma ormai sono solo vibrazioni
appena percettibili del diaframma,
lievissimi gorgoglii della trachea
murati nella tomba del corpo.
Ora che tutto è accaduto,
me l’hanno messa su un tavolo di marmo
per lavarla e vestirla: è mia per sempre.
D’altronde nessuno la vuole,
né parenti né amici, nemmeno
quelle nere ombre silenziose
votate piamente a consolare
il gran male del mondo; il motivo
è che lei non parla con nessuno,
dicono addirittura che non respira,
non fa comunque assolutamente più niente
che riscuota almeno un po’ di simpatia,
non scalda in grembo né gatti né bambini
e non narra dei tempi passati
a nipoti ormai perduti nei budelli
di assordanti discoteche che assomigliano
più alla Morte nera che alla Vita;
non risveglia neppure l’interesse
dei pochi curiosi di passaggio,
neanche quelli che amano spiare
pregando in un angolo buio
le smorfie indecifrabili dei morti.
I branchi cialtroni degli uomini
sono soliti abbandonare per terra
insieme agli escrementi del mondo
le inutili carogne sfortunate
ingombranti e pisciose dei vecchi,
come fanno le mandrie d’animali
che pascolano incuranti a testa china
sotto le stelle; i vinti della vita
cadono come alberi secchi
sul luogo in cui fu presa loro l’anima
e presto si confondono con l’erba
che rifiorisce, oppure giacciono negletti
nelle cucce della loro vecchiaia
in cui furono umiliati ed offesi
e poi nascosti dentro fosse frettolose
nel ventre ingeneroso della terra
con un mazzo di fiori di plastica
comprato al supermarket della piazza.
O neanche quello;
tanto i morti non chiedono nulla,
neanche un briciolo d’economica pietà.
Ma sul suo viso non c’è alcuna smorfia:
è il suo viso di sempre, le membra
solo un poco più arrendevoli, languide;
ed è ancora un po’ calda, quasi affabile,
emana il suo solito odore
un po’ stantìo di buona vecchia madre
che si sia da poco strusciata
come una chioccia alle sue vecchie cose
e un po’ indugiando con affetto e un po’ sbavando
abbia aperto vecchie scatole di foto
e odorato profumi lontanissimi
di lettere legate coi nastrini.
Mi viene da mormorarle all’orecchio
le parole d’un triste conforto
come quelle del buongiorno mattutino:
“sai mamma che stamane c’è il sole?”
Ora tutti si sono eclissati;
sul tavolo di marmo del mondo
è stesa una povera vecchia
spogliata di tutte le sue cose
e abbandonata dagli uomini e da Dio
dacché s’è chiusa in questo sonno inesplicabile.
Forse non voleva più vedere
i peccati del mondo, s’è fatta
una sorta di provvida capsula
in cui attendere immune dal gelo
la fine dell’inverno e del mondo,
il traghetto a un’altra riva della vita.
Intanto, come tristi sacerdoti,
gli sciacalli vestiti di bianco
le stanno svuotando la stanza
disperdendo le povere cianfrusaglie
per far posto ad un altro morituro,
esaminarne le viscere di vecchio
e trarne ancora i loro tristi auspici.
Ho gettato un ultimo sguardo
al letto vuoto, l’amico infedele
che ci ha traditi; aveva ancora impressa
la cara forma diventata ora
un incolmabile buco nel mondo;
c’era ancora l’ingannevole flebo,
beffardamente designata ad infondere
la vita quando già veniva meno;
pendeva da una sterile placenta
col suo inutile cordone ombelicale.
Ma questa è una piccola bambola,
una tenera gentile creaturina
solo un po’ spaventata;
s’è già arrampicata sul mio petto
per scaldarsi e fa quasi le fusa
adesso ch’è tutta per me.
Ma bisogna lavarla e vestirla,
profumarla per la festa di compleanno
con la pietà che Iddio ci ha insegnato,
non è tempo per quella manesca
indurita soldataglia mercenaria
comandata di gettarla in un pozzo
dell’antica prigione della terra
per punizione di essere nata
in quella mite sera di giugno
di tanti, tantissimi, anni fa
quando c’erano lucciole e grilli
a fare folli romanze d’amore
e qualcuno che caro la vegliava.
Oggi soltanto io
sono qui, senza lucciole e grilli
e forse anche un po’ trepidante
ma pronto per l’ultimo atto,
l’amoroso tributo della pietà.
Vorrei che tutti conoscessero
il fiducioso rimettersi dei morti
nelle mani amorose dei vivi
che ne accudiscono i bisogni corporali:
si plasmano su di noi per compiacerci
come amanti, con le forme ancora tiepide
ma troppo stanche dei corpi che si rilassano;
e in quel grande rito d’amore
si restaura la giusta e armoniosa
comunione della vita e della morte
che il male brutalmente ha sconvolto;
è la pietà dei forti
davanti agl’inermi ed ai deboli
le cui membra mansuete si abbandonano
nella casta impudicizia della Morte.
Fu un dolce viaggio,
una grande amorosa avventura,
infilare quasi come in un sogno
candide mutande e camicette
a quel docile corpicino assopito
che rispondeva nel sonno alle carezze
rassicurato di sentirsi accompagnato
nella sommessa timorosa dipartita;
fu come sfiorare di baci
una bella addormentata nel bosco.
La buona Morte ha anche consentito
di accedere ai segreti di quel pube
tanto a lungo gelosamente nascosto
ma ormai senza veli né peccato:
era quello della Mamma,
col suo enorme sesso nel mezzo
così bello, regale, possente,
ancora solennemente assiso
sul trono della vita e della morte
e ancora tanto pingue e gentile,
sorridente per la sua malcelata
ma così pudicamente custodita
antica giovinezza; sia grazie,
per il dono di quel Monte sublime
che si rinnova in ogni giovane donna
e che i mortali amano con furore
per gettarsi nel profondo uterino
del mare ove conobbero la luce:
dissetante scaturigine di vita,
tana tanto agognata di pace
dagli assetati viaggiatori dell’universo
sfiniti dai loro cammini!
Finché riceve amoroso nutrimento
la carne dei morti resta tiepida,
duttile e tenera come la cera;
è turgida di linfa e di cellule,
forse ancora piena di speranza,
e le membra sembrano appagate
di starci abbandonate fra le braccia.
L’anima è staccata dal corpo,
ma non può essere molto lontana:
si avverte così nitidamente
che alita ancora fra noi
come ape gentile sul miele,
forse freme in segreto timidamente
per le tenere cure che riceve;
è quasi una segreta complicità
fra i vivi e i morti, quasi ch’essi fossero
trattenuti dalle nostre carezze
e fossero indecisi se lasciare
al suo destino di disfacimento
quella casa di carne tanto amata;
e frattanto si fermano attenti
accanto a noi ad osservare compiaciuti
queste umili cure che gli diamo
mentre in cuore a noi premono le lacrime.
Ma perché non può essere concesso
di tenerla per sempre con noi
questa nostra tanto cara e delicata
crisalide di mamma ancora calda
che non dà fastidio a nessuno,
magari discretamente nascosta
in una culla vicino al giaciglio
in cui contiamo le notti ed i giorni,
oppure ben coperta e al calduccio
insieme a noi nel nostro stesso letto
proprio come un vero piccolissimo
bambino da accudire e guardare
e solerti spiarne i vagiti,
se ancora poco fa era viva,
e le scacciavo le mosche moleste,
e stavo attento a rinfrescarla col ventaglio
perché crescesse sana e robusta!
Perché questi uomini civili,
consumatori di gentili sentimenti
ma che sanno così bene sbranarsi
nel nome di Dio e della Legge,
non consentono a un’innocua vecchietta
di dormire nemmeno in una piccola
buca del nostro giardino,
almeno finché arrivi primavera
e possa volar via dalla crisalide
come un’agile giovane farfalla
trascinata dall’impeto del vento
come l’erba che risorge dall’inverno?
Ora è ordinatamente composta
nel giaciglio della nuova sua casa;
ma neppure i cuscini ricamati,
né il legno lucidato dal decoro,
né le zampe di leone intagliate
dall’antica sapienza del morire
riescono a dare dignità
ai cedimenti inverecondi dei visceri
che ormai non ce la fanno più
a frenare gli assalti della corruzione.
Eppure quella fossa che l’attende
nei meandri ripugnanti della terra
piena di tane, di radici, di esseri
che si devono nascondere nel buio,
è ancora una parola sfocata,
un concetto lontano e irreale;
non riesco a distogliere lo sguardo
dalle povere sembianze ancora umane,
ancora così care e familiari
nonostante il gran buco sdentato
della bocca oscenamente spalancata:
la pelle è ancora tutta stranamente
liscia e fresca come quella d’una bimba
appena sofferente e solo stanca
per la grande fatica del cammino;
ma non è che il volto ingannevole,
la maschera suadente dell’altro
ben più orribile e senz’anima
che si affaccia paurosamente all’eternità.
Dal pertugio della bocca semiaperta
sembra quasi che ancora respiri,
ed io spio con timore in quel buco
il misterioso pullulare dell’eternità:
mi chino ogni momento sul suo viso
per studiarne le ombre e le rughe,
perché a volte m’è parso mi sfuggissero
nel momento in cui sbattevo le palpebre
alcuni moti sotterranei impercettibili,
tremolii delle guance, sospiri
che forse esitavano a mostrarsi;
ma non sono che fate morgane,
fallaci riflessi d’amore
sulle spesse mie lenti di miope,
e allora una lacrima calda
finisce per caderle sul viso.
Ora è liscio e repellente come il marmo,
anche le sue mani di pietra
premono sul grembo disabitato
col peso disperato di sassi
rotolati da una frana della montagna;
non vi sono più lacrime ardenti
né carezze, che possano infonderle
anche un poco del nostro calore.
Ora è sceso a spiarci il crepuscolo,
che volteggia con ali maligne
travestite di piume, quasi ombre
scaltramente bramose di resurrezione;
per un arcano ingiusto castigo
quel corpo ormai avvolto dalla notte
sta perdendo ogni sembianza umana,
il granchio del gelo arriva ai visceri,
li stringe con tenaglie di ferro
chiudendo in un pesante sarcofago
ogni alito di cellule superstiti;
alla fine di questo processo
è un vero morto, un guscio di calcare
uguale agli altri fossili della Terra
concresciuti senza storia nei suoi strati.
Ma ora non sono più sicuro
che egli non covi nel ventre,
fatto tana a un’orribile chioccia,
forme turpi ed aliene di vita;
una forse è già germogliata
dalle uova nascoste nei cunicoli
e potrebbe affacciarsi dal suo sonno
nel nostro mondo, vogliosa di ghermirci
con una specie di sordido amore
animalescamente possessivo
forse carnivoro.
Temo che l’anima grigia
di quel povero corpo mal morto
non sia più benevolmente disposta
e più non indugi con noi
in amorosa dimora d’affetti;
è stata brutalmente offesa
dalla Morte, trasformata anch’essa
in una diaccia struttura meccanica
coi movimenti forse d’un automa,
una gelida imperscrutabile intelligenza
amorale forse mossa perversamente
dal maligno disegno di risorgere;
e ora preme per vincere ogni legge
di natura e di uomini e rientrare
in quel gelido corpo decerebrato,
rimetterne in moto i congegni,
riavviare la ruota delle articolazioni,
riaccendere infine il delirio
demoniaco della vita perpetua.
Ho davvero spavento:
quella Cosa di ferro che un giorno
fu una madre adesso sembra immobile,
ma una rozza entità animalesca
dev’essere entrata ad abitare
con la carne vibratile e febbricitante
nella triste carcassa; sono certo
che dentro c’è un essere bestiale
di natura immonda e innominabile
riuscito nel terribile disegno
di rimettere in moto i congegni,
e adesso mi spia e mi studia
dalle buie feritoie della fortezza;
allora corro ad accendere le luci
accecanti del bianco obitorio
perché frughino subito come fari
ogni anfratto in cui possa annidarsi
il Male introdotto dalla Morte
con magici e segreti sotterfugi;
bisogna assolutamente ch’io fissi
quella morta senza sbattere gli occhi,
non deve sfuggirmi neanche un sintomo
di ciò che accade sotto le sue vesti,
segni premonitori, rumori,
rantoli, gorgoglii di budella,
devo essere ben pronto a fuggire
se la Cosa che certo è non-morta
mi si levasse terribile davanti
con le sue braccia e mi sbarrasse la strada,
non madre, amica, o sorella,
ma un essere sorto dal Nulla
mai creato da Dio né da Natura,
nato solo dentro l’uovo della Morte
e che conosce per antica sapienza
ogni nostro più indifeso cunicolo,
ogni piega del corpo e della mente.
Mamma, Dio, dove siete,
vi prego, non lasciatemi qui
prigioniero come un cane atterrito
nella fossa di serpenti della mente,
liberatemi dal Male, rompete
il maligno incantesimo della notte,
apritemi col bisturi di un’alba
l’orribile bubbone rigonfio
di pus e di laidi fantasmi
cresciuto come un cancro nel mio cranio
per nutrire le sue larve, fate presto,
ridatemi la luce del giorno,
un clamore sfrenato di uccelli
che annunci il trionfo del Bene
e faccia abortire quel guscio
dalle false fattezze di madre,
quell’orribile fantoccio di morta!
Ma so che nonostante tutto
dovrò restare: qui è la mia trincea
di valoroso sfortunato soldato
e devo difenderla con onore;
è impossibile volere fuggire
da ciò che poco prima era il corpo
ancora vivo con l’anima vera
della madre, le sue cellule e il sangue
ed il fiato che ancora caparbio
si ostinava nella cassa toracica
in uno sforzo sovrumano di salvezza,
prima d’esser vomitato dalla bocca
come orribile schiuma maligna
fabbricata dai diavoli della morte!
Resto immobile;
quasi più non respiro
per tendere l’orecchio e ogni muscolo,
incollato ai più piccoli rumori,
alle fiammelle sensibili dei ceri,
alle minime correnti d’aria
che possa emettere la bocca di quel corpo
non so più se benedetto o depravato.
Mi sono inchiodato alla mia croce
e attendo che la Cosa mostruosa
si animi e mi cerchi con gli occhi,
con cigolio di meccanismi si alzi,
s’avvicini repentina e mi giudichi,
lasciandomi infuocata sul costato
l’inconfondibile impronta del Demonio.
E’ l’ora ignuda e disperata della solitudine,
quella in cui la bestia nella trappola
morde invano il laccio di Dio;
è l’ora in cui i pensieri atterriti
vorrebbero nascondersi come topi
nel caldo rifugio di carne
della dolce compagna lontana;
ma io non la volli al mio fianco
perché credevo di essere forte,
capace di scacciare da solo
gli spettri che assediano petulanti
come mosche i corpi dei morti
e vogliono svuotarli delle anime
che appartengono invece solo a noi.
Questo era il corpo della mamma,
era mio dunque
e volevo possederlo da solo
per stringere la Morte alla gola,
e forse con la forza e l’astuzia
avrei potuto uccidere la Rivale,
alitare nuova vita in quelle carni
anche a costo di tenerle sull’orlo
d’una eterna vita letargica;
o almeno impetrare che l’anima
restasse anche invisibile nei pressi,
se proprio non era possibile
conservarla un poco più a lungo
nella casa divenuta inospitale.
E invece m’ha respinto anche la mamma,
chiamata ad altri amori, a ripugnanti
incomprensibili amplessi con la Morte;
m’ha lasciato per sempre la mano
ed ho sentito tutta la sua pena
nel dovermi chiudere fuori
dalla porta della nuova sua casa.
Ora l’unica tana nel mondo
è la giovane femmina che ci ama;
domani forse, liberato dai fantasmi,
saprò ritrovare la strada
che dai lugubri intrighi della morte
ci riporti alla foce luminosa
del suo ventre. Oh, amaci e divoraci,
utero dolcissimo e benedetto
che disceso dal tripudio dell’Essere
hai fatto nido nel corpo delle madri
per farci suggere, mammella di Dio,
il Lete benefico che libera
dall’orrore insostenibile della Morte!
D’improvviso è accaduto qualcosa
sulla vitrea superficie della notte
e m’ha fatto trasalire: quasi un graffio,
una breve incrinatura del buio;
nel silenzio della notte è avvenuto
il miracolo d’un grido d’uccello.
Ascolto; ecco ancora altri gridi,
dapprima cauti, forse timorosi;
e infine sfrenato e lussurioso
uno scoppio di trilli e di canti,
un accendersi di mille candele
nella gelida cattedrale della Morte.
E’ la luce neonata dell’alba
che si libera dai luridi involucri,
è il vagito prepotente che squarcia
il ventre maligno della notte
mentre tutti i dèmoni fuggono
come fosse apparsa sfolgorante
la luce di giustizia di Dio
a salvarci dalla stretta del Male.
Ora sì, ch’è il tempo del pianto,
di implorare le Madri del mondo
che generarono le viscere di mia madre
e il mio Io, la mia anima, la mia carne,
e che presero su di sé la terribile
eredità di nutrire e consolare:
perdono, per un debole figlio
che ha avuto timore del corpo
così mansueto di sua madre
e non sapeva che tutte le Madri
stavano con lui a vegliare
la spoglia della figlia diletta;
perdono, se ha temuto per un attimo
d’essere sopraffatto dai fantasmi
che come ambigui automi bifronti
s’acquattano fra le pieghe insidiose
degli oggetti nascosti nel buio
e poi impudicamente ci affrontano
per sottrarci l’amore dei morti;
oppure irridendoci s’infilano
dentro i poveri involucri dei corpi
un giorno tanto amati ma ora
destinati come scatole vuote
a contenere soltanto la Morte.
Ora un nuovo giorno del mondo
ha alzato le bianchissime vele
perfino sulla casa della Morte;
anche il cuore, liberato dai veleni,
scioglie le sue vele ad un torrente
solare di venti d’oriente
come nave liberata dai ghiacci
e dai fantasmi; ed ora io stupisco,
non vedo innanzi a me nient’altro
che una povera forma grigio-sporca
neppure somigliante a una persona;
forse è solo cartapesta, un manichino
steso lì dalla pietà degli infermieri
affinché avessi meno da soffrire,
una copia inoffensiva malriuscita,
un innocente animale imbalsamato
che hanno empito di paglia e segatura,
un feticcio certo mite e generoso
al posto di colei che fu abbattuta
dalla oscena ferocia della natura;
ed ora ho soltanto vergogna
d’aver tanto temuto proprio chi
m’aveva confidato con fiducia
la sua povera sostanza corporale
affinché la custodissi e vegliassi
durante la lunga e penosa
metamorfosi della dipartita.
Una pia donna
appena uscita dalla messa delle sette
s’è fermata sulla soglia della sala;
forse ha detto una preghiera,
forse ha solo figurato se stessa
stesa un giorno sul piano di marmo
coi fiori, i nastri, l’abito da sposa;
e un figlio sedutole accanto
a tentare e ritentare ostinatamente
impossibili comunicazioni d’amore.
Ma l’odore impudico della Morte
ha cominciato minaccioso a premere
per uscire dal gonfiore del ventre,
già trapassa l’inutile barriera
delle essenze che doveva contenerlo
ed ora alza il capo mostruoso,
col suo liquame tentando ogni orifizio.
E’ necessario imparare ad amarlo,
ad accudirlo come il piccolo figlio
anche se malvagio e depravato,
poi ch’é quello che ogni corpo corruttibile
secerne con gli umori della vita;
è l’odore che serve a riconoscerci
mortali tra la folla dei mortali,
non puoi nasconderlo con fiori e profumi,
questi formano anzi un venefico
nauseante composto che s’incolla
agli abiti, alla pelle, entra nel sangue,
corrompe i nostri stessi pensieri.
Chissà se la Morte
concede di liberare i pensieri
dalla turpe soggezione al groviglio
putrescibile di nervi e neuroni
che si sta liquefacendo nel cranio
per renderli finalmente somiglianti
al pensiero senza corpo di Dio?
Il processo della morte è compiuto.
Tutto è stato disfatto, abbattuto.
Anche l’anima certo s’è smarrita
nei penosi labirinti dell’esilio;
forse s’è arenata su una spiaggia
sconosciuta e inospitale dell’universo
e s’è spenta come quella sfortunata
d’un delfino coperto di mosche.
Ora forse non sarà così difficile
calare in una bara e in una buca
senza neanche più toccarla né vederla
questa Cosa che non è più nessuno;
rivedremo l’effigie della Mamma
soltanto nel ricordo, se ci assiste
la labile memoria di vecchi;
oppure in quella foto sgualcita
nemmeno tanto ben riuscita
scattata nei giorni in cui la Morte
non sembrava ancora toccarci
da tanto vicino; ma in quel viso
ch’essa già aveva eletto a suo nido
c’era un mesto, strano, indecifrabile
ma indimenticabile sorriso.
Non è stato che un giro di soli
e la sua casa è crollata per sempre,
dovrò abbandonarla al suo destino.
Era il tronco vecchio e malato
che non poteva sopravvivere allo sforzo
insostenibile di un’altra primavera;
essa era la mia stessa pelle,
che mi sono dovuto strappare
adagiandola amorevolmente sulla terra.
Chi sarà d’ora in poi la nuova pelle,
il letto caldo dentro il quale attendere
senza esser sopraffatti dal timore
la prossima visita per noi
della Morte?
Adesso non so più se sia possibile
esiliare quel corpo dolente
forse ancora bisognoso di cure
che m’hanno chiuso in una bara e in una foto;
chi mai potrà gettarlo in una fossa
ed andarsene a casa a vegetare
in lunghe file di giorni e di notti,
senza più condividere la trincea
in cui forse nostra madre ancora
cerca un’impossibile salvezza,
senza contemplare da vicino
con affetto, nonostante il ribrezzo,
il volto osceno e disfatto della Morte?
Bisogna che mi lascino vedere!
anche a costo d’aprire ogni giorno
quella bara con tristi sotterfugi;
con gli occhi aperti mi dovrò costringere
senza battere ciglio a guardare
bene in faccia la morte della carne,
quella vera che si sta disfacendo
annegando nel suo triste liquame;
hanno scannato come agnello di Dio
la carne così bella della mamma,
e devo imparare a accompagnarla
fino in fondo alla sua putrida disgregazione.
Forse è un atto che assomiglia all’amore:
pagherà almeno un poco la colpa
d’essere degli inutili superstiti?
La memoria ostinata dei superstiti
sarà per molto tempo tormentata
dal dolore di averla abbandonata
a soffocare in una fossa ripugnante
e ad esser sfigurata dai topi
che amano le fogne e le fosse;
eppure il ricordo è il solo bene
che resta a chi ancora per poco,
e forse per caso, sopravvive;
è il solo compagno d’amore
che duri una vita a morire.
Ogni volta che andrò a visitarla
coltiverò nel segreto la speranza
forse vana di trovare per miracolo
che sia risorta, e la tomba scoperchiata;
e che m’abbia lasciato sul fondo
un messaggio, o un segno di perdono.
Anche oggi, che piove senza sosta
ovunque dolorosamente sulle colline
e s’annunzia straziante di neve
il male misterioso dell’inverno
e piove su uomini e animali
che trascinano smarriti come un debito
le loro piccole inutili vite
e piove soprattutto sui resti
straziati dai vermi e dai topi
di questi morti inzuppati di fango
che forse piangono ancora come bambini,
ho gridato lungamente “mamma!
dammi un segno, mostra che ci sei,
che ancora esiste di te in qualche luogo
almeno un’ombra, un simulacro, forse un’anima”.
Ma per ora dovrò contentarmi
di custodire il suo mini-giardinetto
con questo muto segno di marmo
e il lumino tremolante sempre acceso.
Per fortuna ha dei buoni vicini,
ho piantato anche il mirto odoroso,
la lavanda, il pepolino, la cedrina;
loro ad ogni nuova stagione
risorgono e forse ogni volta
là sotto qualcosa avrà un fremito.
Chissà se nel gelo dell’inverno
per riscaldarsi sotto tanta neve
in quelle povere case diroccate
dei loro corpi senza pace anche i morti
possono almeno stringersi insieme. |