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PRIAPOSODOMOMACHIA
Storia lussuriosa del cavaliere e la donzella

La prima edizione di Priaposodomomachia è uscita nel 1992 per i tipi della Nuova Compagnia Editrice, Forlì, con l’introduzione della psicologa Patrizia Adami Rook. E’ stata anche più volte messa in scena; ricordiamo soprattutto la rappresentazione teatrale a più voci realizzata da Carlo Rotelli e la Compagnia “I Canova”. La presente edizione è stata totalmente rielaborata.
“Questa parodia di “Sacra Rappresentazione” può essere letta sia semplicemente come pura esercitazione retorica per mostrare le potenzialità espressive della poesia anche in campi mai frequentati dai poeti, oppure come esplorazione catartica nei nostri sottosuoli emozionali più inconfessati e censurati dal “comune senso del pudore” tipico del lettore di poesia” (Dalla prefazione di V.S.).
“Il mito dell’Eroe in guerra contro il Mostro è la lotta inquietante che ogni figlio maschio deve vincere contro la propria madre per differenziarsi dal suo essere femminile e affermarsi nel segno opposto. E se Edipo rappresenta il rischio che ogni maschio corre quando, anziché separarsi dalla madre (e vincere il Mostro) torna ad unirsi a lei, si comprende come ogni essere femminile possa apparire, agli occhi d’un giovane maschio in lotta per la propria identità, ricettacolo di mostri e demòni” (Patrizia Adami Rook).

IL PROLOGO
Nobilissime eccellentissime Eccellenze
che assise in quest’eletto luogo
ardete di edificare lo spirito:
quest’oggi vi sarà narrata
dall’anima d’un giovane Cavaliere
amputata fortunosamente dal corpo
la storia dolorosa della guerra
da lui combattuta contro il Male,
poi che egli adorava e serviva
con amore quasi casto e puro
la bellissima Niobe ma ignorava
ch’ella fosse uno strumento del Demonio;
il quale un giorno prorompe inopinato
dall’ano sfortunato senza macchia
dell’amata, in cui s’era nascosto
per attrarlo nelle tristi latebre;
ma il fiero e valoroso Cavaliere
combatte anche a costo della vita
la santa guerra per salvarsi l’anima.

Fratelli, pietà per il supplizio
di quest’anima monca di corpo
che non potrà soffrire mai più
i pur dolcissimi dolori dei vivi;
non so neanche quale sordido budello
bestiale o forse sovrumano
abbia digerito e abbandonato
nella polvere come un escremento
la mia bella spoglia mortale
di cui soffro così grande nostalgia.
In verità vi posso solo rivelare
che il Demonio ha le orribili sembianze
d’un budello gigantesco quanto il mondo
i cui voraci succhi digestivi
senza sosta distruggono le vite
ricoprendo il Pianeta d’escrementi;
a me ha disciolto ogni più piccolo frustolo
del mio bel corpo, così che m’è rimasta
solo l’anima ignuda di peccatore
incapace di restare attaccata
alla buona memoria del mondo
se non trova il pietoso rifugio
d’un cuore che accolga la sua storia,
forse troppo minuscola per resistere
all’opera rovinosa del Tempo.

Ai giorni del mio breve passaggio
fra i giovanili ardori della vita
avevo sempre contemplato l’Amore
navigando coi miei sogni verginali
sul vascello dalle vele colorate
della mia sospirosa primavera.
Da quel casto osservatorio corporeo
protetto da pudiche cortine
potevo spiare non visto
anche le dolcezze del Demonio,
al riparo da rischiosi inquinamenti
e da torbide fornicazioni contro natura.
Fu allora che un giorno m’apparve
benignamente d’umiltà vestuta
la bellissima Niobe, la fanciulla
che assisa in una bianca conchiglia
avvolta da angelici vapori
era sorta dalle spume del mare
attorniata da gentili creature
e docili pesci d’amore.

Apparteneva alla specie celeste
benevolmente discesa a nutrirci
di puri pensieri; non so
se fu più amica o tenera sorella
che vegliava i miei sonni, più amante
o sollecita signora che guidava
amorosamente per mano
la mia grande devozione di paggio;
ne adoravo umilmente la bellezza
e la sapienza squisita, respingevo
perfino il più piccolo sospetto
che il suo nobile involucro carneo
così tenero e bianco celasse
i succhi dei comuni mortali
e le tristi materie innominabili
di chi è fatto di carne corporale;
ero certo che qualunque pur sordida
cosa vi fosse contenuta,
anch’essa doveva umilmente
servire alla bellezza del suo spirito
e mai avrebbe osato mostrarsi
dalle tristi latebre senza luce
in cui stava da sempre segregata.

A dire il vero nella breve vita
non avevo disdegnato d’accostarmi
ad attraenti misteri corporali
di triviali graziose donzelle
non meno care ai pensieri di Dio;
riconosco anche d’essermi attardato
ad ogni scia di buoni odori femminili
lasciata da fragranti pelurie,
ascelle in fiore ed altri anfratti traboccanti
di tutte le più sapide rugiade
della loro imperiosa giovinezza,
ma sempre, devo dire, osservando
gli onesti comandamenti di Dio;
giammai il desiderio pur carnoso
dei seni procaci o dei glutei
d’intemerata bellezza di Niobe,
e neanche le furtive fantasie
sui recessi più gelosi celati
dalle vesti pudiche, cui talvolta
confesso indulgevo tutto solo
nel calduccio segreto del mio letto
con pensieri arditi e tumultuosi
che alla fine sbocciavano deliziosi,
ma nemmeno la vista sconvolgente
benignamente concessami un giorno
da lei stessa sulla magica nicchia
che ospitava il più bel fiore del mondo
e oggetto d’ogni sano desiderio,
poté mai offuscare la purezza
del mio sguardo quando contemplava
il suo casto angelico incedere
che sfiorava appena la terra.

Ma purtroppo fui anche arditamente
incoraggiato a esaminare da vicino
le chiare e fresche grazie del suo sesso
con mirabile sapienza create
dal buon Dio a propria immagine e somiglianza;
e allora mi rapirono i nettari
che stordiscono i sensi e lo spirito
come i grassi fiori carnivori
delle umide foreste tropicali;
confesso che spiai tutti i petali
intorno a quel tenero orifizio,
                   ma solo per convincere il mondo
che anche in quel luogo c’era un’anima
(quella che pure qualche dotto
negava all’infelice Femminino),
e allora come un paggio fedele
dovetti ficcarci naso ed occhi
per mostrare a quei sapienti che davvero
c’era l’impalpabile sostanza
dell’anima, chiaro specchio di Dio
e Sua verace secrezione celeste,
il lago in cui lucevano invitanti
le stelle dell’umana salvazione.

Infine abbacinato dai sospiri
di quell’anima turgida e carnosa
io con tutto me stesso travolto
dalla forza struggente della fede
mi trovai a oltrepassare le arcane
meraviglie della piccola porta,
mentre tutte le trombe dell’estasi
sgorgavano in un gaudio di trionfo;
il mio giovane virgulto s’immergeva
e di nuovo ingordamente s’immergeva
risucchiato santamente dal Creato
in un mare primigenio senza tempo
in cui vagivo e vagivo senza freni
abbracciato a quell’anima casta
in cui pulsava la vita e la morte.
Oh Priapo generoso e sfortunato
che si perse in quel gorgo di sospiri
nel cui fondo s’agitavano dorate
le impudiche sembianze del Demonio!

Ancora non l’aveva mai sfiorato
un pensiero da Priapo men che onesto,
né il minimo involontario capriccio
di tristi fornicazioni contro natura
che provocassero l’ira di Dio;
mai aveva messo a repentaglio
la vita del suo nerbo sensibile
dentro gole munite di denti
dedite a carnivore fellazioni;
tantomeno aveva osato introdursi
dentro laidi cunicoli cui Dio
aveva dato solo compiti escrementizi
e in cui poteva perdersi per sempre:
temeva d’esser subito morso
dalle fauci imbestialite poste a guardia
del Buco Nero che fuoriesce dall’universo
e che per nemesi giusta ed inflessibile
si sarebbe inghiottito insieme al pene
l’anima e il corpo in un solo boccone.

Ma nel breve giro di soli
che calò sulla mia vita sfortunata
venne inaspettato anche per lui
quel giorno infame: in un attimo solo
il tarlo d’una nuova libidine
aprì una crepa nelle mura indifese
del suo semplice ego priapesco
prestamente intrufolandosi fra le maglie
della fragile coscienza mentre forse
essa s’era dolcemente distratta
al pigolio d’altre tenere tenerezze.
Nella giovane mente animalesca
quella crepa divenne una voragine,
una fossa impudica del Male
che nutriva un popolo ipogeo
di grasse capre dal piede biforcuto
e sconci fauni mal coperti di pelo:
era il mondo bestiale delle brame
più perverse, che sonnecchia fintamente
devo dire anche in peni più che onesti,
ma che ora senza alcun pudore
scoperchiava le sue botole infernali.
Ben presto avrei dovuto risputare
come un duro nocciolo indigesto
il Male che s’era incastrato
nell’esofago infelice del pene.

Tutto accadde perché la dolce Niobe
un bel giorno per un gioco nuovo
incantata da uno sciame d’amorini
s’era messa mollemente prona
e sciogliendosi in umido languore
si lasciava tutta quanta con lo sguardo
accarezzare dall’insolito orizzonte,
ma anche amorosamente vellicare
e poi dolcemente assalire
dal didietro come docile pecorina.
Non potevo scrutarla negli occhi,
non potevo vedere se nel fondo
covassero guizzi mordaci
del disegno diabolico di Satana,
e caddi nella rete che il destino
e l’antica sapienza del Femminino
apparecchiano ai poveri priapi.

Io m’ero abbandonato ignaro
alla ghiotta seppure innocente
esplorazione delle rosee meraviglie
nascoste fra le soffici valve
delle natiche dorate dal sole
che si ergevano turgide a proclamare
la prorompente bellezza del Creato.
Oh immagine ancestrale onnipotente
che catturi la forza dei priapi,
oh archetipo che magico scatti
come molla costringendoci a rotolare
in insane lascive impudicizie!
Io stavo cercando rapito
solo il germoglio più tenero
che s’era pudicamente nascosto
nella tremula nicchia; non volevo
predarlo o strapparlo al padrone
ma solo contemplarlo da vicino
e dare poscia ancora giusto nido
al mio impaziente e valoroso Priapo.
Oh, fanciulla, come ancora ricordo
il tuo collo gentile di gazzella,
la tua schiena così flessuosamente
arcuata, e il didietro che sembrava
fatto apposta per nobili Cavalieri
affinché vi riponessero vinti
insieme ai sospiri le vite!

Fu lì che lo schiaffo inatteso
mi colpì
d’una mai fino allora veduta
estraneissima cosa,
una specie di idra, di ragno,
di ratto, di trappola, di vulcano,
di bocca oscenamente sdentata
di vecchia: il terribile Ano
mai visto da onesti mortali
era lì, perverso e dispotico,
mostriciattolo sacrilego eruttato
sicuramente dal centro della Terra
e scagliato fra le candide natiche
così amabilmente dischiuse
davanti ai miei occhi sbigottiti.
Era certo un fiore tenebroso
dell’Inferno, una pianta crudelmente
carnivora in grado d’ingoiare
mosche, vermi, uccelli, serpenti,
ed ogni laida specie d’animale
che striscia sulla faccia della terra
sotto il peso del peccato originale.

Eppure somigliava stranamente
all’ano cedevole e intrigante
di certe impudiche galline
che seducono i fanciulli campagnoli
e li inducono a sondarle voluttuosamente
prima solo col dito per scoprire
il loro ghiotto uovo da bere
e poi subito colti da un raptus
a sodomizzarle ben bene
con il piccolo pene temerario,
forse delirando d’inseguire
il perduto cordone ombelicale
fino al nero ventre lascivo
della madre. Ma io, ch’ero saldo
di spirito e di corpo, dissi no
davanti alla porta dell’Inferno;
lì si doveva arrestare
timorosa di terribile castigo
anche la più ardita e temeraria
sete di straordinaria conoscenza.

Ma il grandissimo Ano stava lì
sontuosamente protuberante nel mondo,
come un favo turgido di miele
e di carnivori succhi velenosi
pronti a digerire ogni essere
che con torbide brame incautamente
si fosse avventurato nel cratere.
Fingeva un suo cuore gentile
con malie di moti sinuosi
e di danze lubrìche capaci
d’invischiare le semplici e inermi
menti animalesche degli uomini;
ma subito mostrava il vero volto,
una bocca spalancata e tumefatta
come quella d’una testa condannata
e spiccata dalla scure con ancora
l’urlo in gola, issata poi dal boia
come monito in cima ad un palo:
orrifico totem destinato
ad accecare la luce degli occhi
ad ogni incauto perverso fornicatore.

Ma io ero puro,
nutrito d’amore quasi casto
e devo dire abbastanza spirituale;
adoravo com’era comandato
solo il succulento Femminino
che abitava da sempre santamente
le tane delle grasse vagine
con le loro sicure e veritiere
incrollabili rappresentazioni del mondo,
con le semplici, sane e tetragone
esigenze sessuali tuttavia
sempre volte al bene della vita;
erano lo stesso caro nido
ricolmo di delizie della madre
che da lì poté generarmi
e nel cui fango ancora pigramente
mi pareva di potermi rotolare
come un grasso coccodrillo contento
che gli fosse concesso di nascondervi
ancora lo sguardo ed il pene
per sottrarli almeno per un poco
all’orrore della morte che incombe
su di noi come cappa di piombo
col suo peso misterioso di stelle.

Mai e poi mai
avrei dunque potuto immaginare
che il bel ventre di Niobe nascondesse
l’antica voragine di Sodoma,
il sordido imbuto dentato
che ingoia sciagurati peccatori
riducendoli a luridi escrementi.
Ecco dov’era nascosto
l’osceno serbatoio del Male!
dietro quale seducente botola
il mondo tenebroso dei budelli
lavora a preparare senza sosta
la materia fecale del Chaos,
lo stadio terminale d’arrivo
dell’Entropia, questa legge fatale
di iniqua finale degradazione
che travolge i miserabili viventi
sino a un unico oceano di escrementi!

Ahi, infelici mortali
gettati in questo triste ciclo
di vita e merda e poi di merda e vita
che si richiude sempre su se stesso;
destinati a vivere soltanto
quel poco che serve loro a credere
d’aver creato il paradiso della vita
deponendo un po’ di semi nella pancia
di inetti e ingannevoli uteri;
ahi gli uteri, macchine così inutili
che non sanno di covare soltanto
delle larve prigioniere ed affamate,
omuncoli senz’ali e senza luce
che appena nati son costretti a divorare
i corpi ancora caldi delle madri
per vivere solo quel piccolo
miserabile giorno di sole.

Ma ora un terremoto mortifero
scuoteva dalle pigre fondamenta
anche la benefica illusione
d’una piccola ma solida felicità,
la perfetta architettura di precetti
così bene e giustamente impastati
da miriadi di api millenarie
nel loro industrioso viavai
su e giù per le scale del cielo
a suggere il nettare di Dio.
L’alveare ora stava sgretolandosi
con le nostre tranquille esistenze
di fiori, presepi, bambini
e nobili apparati uterini
che appartengono solo al buon Dio;
tutto ciò ch’era stato eternato
dal grande e sapiente Orologiaio
scandendo le nostre vite fino alla morte
per la sana conservazione della specie
ora stava per esser risucchiato
da un laido buco nero dell’universo.
Oh fragile meccanismo dell’anima,
se un piccolo errore di neuroni
in una vita tutta spesa ad inseguire
un’onesta raggiungibile perfezione
la fece malamente cedere
proprio quando già credeva d’esser salva!

Nessuno mi venne in soccorso,
offrì ostie, acquasanta, esorcismi
per liberarmi dalla triste attrazione
che assediava le mie fragili forze
prima ch’io dovessi soccombere
al trionfo del Maligno, che afferratomi
per il Priapo mi tirava bestialmente
nel suo stagno pullulante di serpi
e di antiche ripugnanti lussurie.
Uccidere, dovevo, fermamente,
quel drago muscoloso che pulsava
con la bocca e le labbra carnivore
nel centro più caro di Niobe
vicino alle tenere cose
perdutamente amate e perdute;
uccidere quella roba mostruosa,
eseguire la condanna di Dio
su quell’essere lascivo e ameboide
con le fattezze e le ventose del Demonio
che già s’era avvinto come un polpo
alla debole colonna del mio pene.

Quel pene, come un santo chirurgo,
dovette avventarsi sul Mostro,
farsi palo appuntito,
trapassare la porta dell’Ano
e dell’Inferno, allungarsi in tutto il corpo
bianco e immobile come morto di Niobe
aprendosi una strada impietosa
dentro al buio e grasso budello
tra i fremiti del fegato e dei polmoni
e i tremori terribili dei precordi,
che cominciarono a scuotersi orribilmente
fra urla di delirio mai udite
certo del Demonio
ma che tacquero
quando il pene ebbe tutto impalato
quel povero corpo rattrappito
spuntando trionfante da un buco
sanguinoso della spalla destra
dove esausto rimase, aguzzo legno
della giustizia comandato di trafiggere
ogni oscena ingannevole farfalla.

Niobe tutta si sgonfiò del suo pus
con un sibilo di gas maleodorante,
la pelle gentile del suo involucro
si raggrinzì come quella d’un rospo
avidamente succhiato da miriadi
di ragni accorsi al festino;
anche l’anima, stupita,
come foglia d’autunno appesa al ramo
si seccò ed infine cadde
silenziosamente
dall’albero della vita;
fu dispersa dal vento sulle plaghe
maledette d’Averno perché ormai
imparentata con le anime lucifughe
che scosse da fremiti inconfessabili
in grotte oscure attendono soltanto
l’agognata caduta del sole.

Spossato dal dolente trionfo,
a me cadde mozzato d’un sol colpo
fragorosamente, come testa di re,
l’eroico Priapo che tanto aveva osato
nella barbara opera di bonifica,
e fu il giusto tributo che pagò
per la propria disperata redenzione.
Sparì nell’Ano buio dell’Inferno
che su di lui per sempre come oceano
si richiuse; ed io fui salvo pur con l’anima
dubbiosa d’un relitto così monco
che galleggiava sul mare placato
con solo un’esile speranza di riscatto
ma deciso a consacrare solo a Dio
il miserabile resto della vita.

Per molto tempo fui sughero in balìa
dell’oceano misterioso e sconfinato;
poi conobbi la quiete di un limbo
che a lungo trattenne la mia anima
non ancora monda dal peccato
sospesa sopra quegli stessi gorghi
ch’eran quasi riusciti a rubarmi
l’anima e la vita mortale.
Fu struggente, dopo tanto tempo
che all’orizzonte non vedevo alcuna terra,
aprire un bel mattino gli occhi tristi
ed avere la visione dell’isola
ch’era stata a me destinata
per salvezza e dolorosa mortificazione.
Era l’isola più bianca e radiosa
che mai avessi visto, così alta
e scoscesa perfino ai più arditi
trasvolatori fra gli uccelli marini,
e mi parve che levasse al cielo
santamente la sua vetta bramosa
sopraffatta dal sublime orgasmo
di penetrarlo e di congiungersi con Dio.

Là era dunque il provvido approdo
che l’anima attendeva da tempo,
là il calvario da salire per disciogliere
le terribili croste del peccato,
liberare le forze dello spirito,
attingere la luce della conoscenza;
e là ora correvo felice
in un ardente delirio di riscatto
per scavare il mio nido di penitenza,
nascondere l’impura materia
del mio corpo, la carne le ossa,
allo sguardo inquisitore di Dio
e alle grida disperate della coscienza
in una grotta, in un cunicolo di topo,
finché la lunga notte del Maligno
s’illuminasse con il sole del perdono.

Mi cibai solo d’insetti e radici
raschiati con le unghie e con i denti
da pietre avare che soltanto a poche specie
di vite deformi e aberranti
permettevano mute di soffrire
negli anfratti più nascosti della terra;
e a me, ch’ero pur perseguitato
dal rimorso del delitto ma anche
dal bisogno imperioso delle viscere
di essere nutrite, toccò ancora
con le mani tremanti d’orrore
di uccidere quegli esseri infelici
avvinghiati alle tane, di schiacciarli,
masticarli come fanno le belve,
udirne i terribili lamenti
che sembravano fiochi ancora uscire
dalla bocca bellissima e bugiarda
di Niobe, la femmina sciagurata
scelta dal Demonio come nido
di serpenti ed ingannevoli dolcezze,
cui credevo d’avere estirpato
col sacrificio dell’eroico Priapo
il terribile astuto Padrone.

Anch’io non ero alfine che una larva
che strisciava a fatica fra le rocce
trascinando nel lucore delle notti
il peso del suo basso ventre
così dolorosamente monco;
alzavo i miei occhi di bruco
per rimirare le stelle lontane
e poi accecato dal rimorso
mi ritraevo come talpa nella grotta
ad espellere i veleni della colpa
che a calde gocce scendevano dalle gote;
ma sempre i lamenti di Niobe
come furbi roditori s’infilavano
nei buchi della mente a lancinare
l’infelice materia cerebrale,
scappavano dalla bocca coi diavoli
e i muggiti dolorosi ma rientravano
dal più piccolo pertugio ed io sgomento
continuavo a dibattermi per liberarmi,
abbracciarmi alle stelle più vicine,
saziarmi con la pace dell’universo
che ancora scendeva clemente
dalla tenera poppa della notte.

Volli allora nutrirmi solo d’acqua,
e a gocce avare per maggiore espiazione,
leccandole una a una da una pietra
che gemeva nel ventre della grotta
il pietoso sudore del mondo;
e di sale, che raschiavo dalle rocce
mischiato a quelle stesse lacrime
e veleni animaleschi che il mio corpo
ormai spurgava senza più ritegno
da tutti i pori per potersi liberare
dal Maligno e dal rimorso; invano
cercavo di strapparmi dalle orecchie
le strida disumane che grondavano
del nobile sangue di Niobe,
la sua maschera continuava ad atterrirmi
mutando ad ogni istante sembianze,
ora per sedurre la mia anima
con nuovi inganni, ed ora per mostrare
pietosamente le sue sconce ferite.

Fu una lunga penosa malattia
tormentata dal ricordo insostenibile
del supplizio che col pianto negli occhi
avevo inflitto all’innocente nutrice
del Demonio per mia sola ed egoistica
salvezza; ripetevo mille volte
ch’Egli s’era travestito con l’inganno
con gli occhi di gazzella di Niobe,
ma questo non leniva l’orrore
per l’iniquo sangue versato,
né il peso della croce che portavo,
né l’ansia per l’incerto perdono;
soltanto un’impavida volontà
se mi fosse venuta in soccorso
forse m’avrebbe sorretto,
e allora pregando m’aggrappavo
allo stretto pertugio della grotta
per chiedere l’aiuto delle stelle.

Ma poi mi ritraevo di nuovo
nell’angolo più buio del mio antro
a soffrire i colpevoli pensieri
che come serpi s’agitavano e premevano
per uscire dal nido del mio corpo.
Ero certo l’erede funesto
della debole carne mortale
d’una madre impastata di creta
e appetiti corporali; ma il figlio
no, non doveva soccombere,
era forse chiamato a liberarsi
dal peso del peccato originale,
guadagnare dignità e consistenza
spirituali, forse anche a sedere
alla destra del Padre Onnipotente.
Allora sempre più alacremente
riprendevo con fervore voluttuoso
ad emettere altre lacrime e feci,
maligne secrezioni del Demonio
che uscendo ingordamente da ogni buco
e lordando di sé la caverna
forse presto avrebbero affrancato
la mia anima dal peso corporale.

Fu uno di questi escrementi
l’origine accertata d’ogni male;
pareva microscopico e insignificante
come il lieve sputo di un’ape
comparso inosservato nel mondo,
una piccola caccola di mosca
certo del tutto innocente
sull’insonne mio libro di preghiere;
ma molto stranamente prese a crescere,
assunse le misure petulanti
d’una cacca fierissima di topo
irriverente e forse dispettosa
sul piatto della magra mia cena;
poi la vidi ingrossarsi rapidamente,
divenne uno stronzo arrogante
che sembrava il padrone del mondo,
un serpente marino così grande
come avesse mangiato una vacca,
e infine fu un’enorme, sfrenata,
sconfinata massa nera mai vista,
forse un uovo smisurato del Demonio
o un mostro, un meteorite, una montagna
precipitata rumorosamente dal cielo
per castigare i poveri mortali.

Quella Cosa innominabile
stava immobile sulla faccia della Terra.
Da principio la spiai incuriosito,
solo appena intimorito dalla mole;
ma in fondo aveva solo l’apparenza
innocua d’un globo pachidermico,
una massa animalesca di carne
senza capo né coda né cervello,
solo un ventre dall’arcano contenuto
ma bonaccione, forse un po’ sconcio
come quello d’un grasso ippopotamo
afflosciatosi dopo che la morte
l’aveva colto nel centro dell’anima.
Guardando bene c’era anche qualche brivido
che correva leggero sull’epidermide,
e qualcosa somigliante a un deretano
pareva ancora addirittura respirare
col ritmo di un mantice sfiatato,
ma infine esalò in un sospiro
rassicurante le ultime flatulenze.
Provai a toccarlo con un dito
premendolo sull’occhio sinistro
già vitreo e sentii quasi pietà
per quell’essere osceno che forse
era stato tanto infelice,
abbandonato da tutti e da Dio
senza neanche una cristiana sepoltura.

Adesso era proprio già morto,
stecchito, non v’era più traccia
di sensi o singulti, neppure
di moti viscerali primitivi;
pareva che un verme avidissimo
sonnecchiante in quell’enorme budino
ne avesse prosciugato le budella
d’ogni essenza vitale; ma la cosa
senza dubbio straordinaria era la bocca
molto simile a un ano gigantesco
dalle enormi labbrone carnivore
beanti fra i lardoni delle natiche;
anche morto sembrava protendersi
nello spazio abitato dagli uomini
col suo grosso sfintere usurpatore
somigliante quasi più ad un brutale
tozzo pene di forma porcina
brulicante di esseri schifosi,
forse afidi, o mosche, o formiche,
indaffarati a pascolare intorno all’orlo
della tronfia mastodontica apertura
tra i fumanti residui degli escrementi.

Eppure non passò molto tempo
che la polpa di quel grosso pachiderma
tornasse furtivamente ad animarsi
dell’antica attività sotterranea,
dapprima in modo quasi impercettibile
poi coi fremiti sempre più eccitati
di un piccolo orgasmo autoerotico,
infine addirittura prese a scuotersi
e ad ansare, a sospingersi in avanti
protendendo la bocca muscolosa
ma straordinariamente agile
che sembrava voler risucchiare
dal mondo dei viventi nel suo imbuto
ogni forma sfortunata di vita
che tentasse di fuggire dalla grotta
invocando quel cielo stellato
che mostrava da lontano il lucore
forse ancora misericordioso di Dio.
Era il Ragno, la Bestia mai sazia
che tornava a riprendere il suo pasto
sulla vittima che aveva avviluppato
e che un giorno credette di sfuggirgli;
era il corpulento Male
in carne ed ossa ed ancora più potente
che non aveva mai mollato la sua preda,
il Demonio coi suoi mille diavoli
travestiti da afidi e formiche
che ora concupiva la mia anima
ghermendo la mia debole volontà.

Io pur riconobbi
lo sconvolgente sguardo magnetico
del mostruoso sfintere cresciuto
come un rosso fungo maligno
dalle laide secrezioni dei miei pori
che gemevano come da un otre
liquame di carne inquinata;
io pur riconobbi
l’antica voragine di Sodoma
che attira bestialmente anima e corpo
in una copula perversa che precipita
nell’abisso dell’autodissolvimento;
ma l’infame ammasso animalesco
ch’era ormai diventato il mio corpo
non fece un solo passo per fuggire
e gettarsi fra le braccia delle stelle
sempre meno lucenti di salvezza
che ad una ad una svanivano nel buio.

Il mio povero Io
restò ipnotizzato a contemplare
la propria morte come fa un automa
senza più carica; disperatamente
tentavo con le unghie e con i denti
di oppormi ma ogni fibra del mio corpo
scivolava tremante di lussuria
nel baratro spalancatosi per inghiottirla,
mentre anche quell’anima di rinnegata
s’avvinghiava al mio corpo ormai dannato
per seguirlo nel viluppo del peccato,
io mordevo graffiavo vomitavo,
brandivo il crocefisso come un’arma,
mostravo invano aglio ed amuleti,
finché io stesso dovetti mozzare,
separandoli con un colpo terribile
della mia spada, il cordone ombelicale
che ancora tratteneva la mia anima
attaccata al miserabile corpiciattolo
che i diavoli stavano trascinando,
ormai perduto, nello stomaco del Mòloc
mentre troppo tardi strideva
come un maiale scannato
varcando quella soglia infernale
per sparire nel Culo del Mondo.

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